il Bollettino | Non c'è tregua per gli alimentari: prezzi su del 21,3% in due anni

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il Bollettino | Non c'è tregua per gli alimentari: prezzi su del 21,3% in due anni

il Bollettino | Non c'è tregua per gli alimentari: prezzi su del 21,3% in due anni

Venerdì 15 dicembre - il Bollettino p. 10-11

Il calo dell’inflazione è legato a stretto giro all’andamento dell’energia, ma fare la spesa resta ancora caro

L’inflazione sui consumi rallenta, ma non si ferma. Nel mese di ottobre 2023, l’indice nazionale dei prezzi al consumo (NIC) registra un incremento del 5,3% su base mensile. La netta diminuzione del dato generale dell’inflazione è dovuta principalmente a una riduzione dei costi del comparto energetico.
In particolare, l’andamento dei prezzi dell’energia non regolamentata (es. carburante o combustibili per uso domestico) è passato nell’ultimo anno dal +7,6% al -17,7%, mentre quelli dell’energia regolamentata (es. luce e gas) sono scesi dal -27,9% al -32,7% (ISTAT). «Il NIC è all’1,8% anno su anno, ma sicuramente aumenterà: l’anno scorso ad ottobre abbiamo avuto un picco che è stato del 3,4% in un solo mese. Perciò, essendo stato così alto, quando si osserva il differenziale bisogna considerarlo», dice Giuseppe Romano, membro del Consiglio Direttivo di NAFOP, Associazione Consulenti Finanziari Autonomi. «Negli ultimi due anni abbiamo sperimentato un’impennata dell’inflazione, fenomeno legato ai dati storici. Infatti, nel 2022 abbiamo registrato un incremento dell’11,6% dell’indice NIC. Ma quest’anno sarà marcatamente inferiore».

In Italia, i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati del 21,3% in due anni. Quali sono le cause del rincaro?
«La risposta risiede nell’inflazione, che tende a riflettersi sui prezzi con il passare del tempo. Nel 2022 abbiamo assistito a un incremento notevole, il più alto dalla fine degli anni ‘80. L’aumento è stato causato inizialmente dal rincaro delle materie prime, con effetti sui prezzi di beni energetici come carburanti ed elettricità. Su altri comparti, invece, è stato inizialmente meno evidente perché l’aggiornamento dei listini di tante aziende sui prodotti, anche alimentari, avviene nel tempo.
L’aumento delle materie prime, in effetti, è iniziato 4 mesi prima della guerra in Ucraina. Stiamo parlando di fine 2021, e la causa è da ricercare nei colli di bottiglia della supply chain seguiti la pandemia. Durante le chiusure si erano fermati sia il consumo, sia la produzione e poi, quando la domanda si è ripresa, l’offerta non era più preparata a soddisfarla. Perciò i prezzi sono lievitati e trovare semiconduttori e metalli come alluminio o rame era complesso.
La crisi ucraina ha poi aggravato la situazione, riducendo l’offerta di alcune materie prime agricole, come il grano, alimentando così la speculazione e facendo salire ulteriormente i prezzi. Adesso tale condizione è in gran parte risolta.

Un altro fattore è stato l’aumento della massa monetaria negli ultimi anni, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, a seguito delle politiche di “quantitative easing” e di azzeramento dei tassi di interesse. Secondo l’equazione di Fisher, più alta è la massa monetaria, più alti saranno i prezzi dei beni, anche se il ritmo di circolazione della moneta rimane costante. Tuttavia, le politiche restrittive degli ultimi mesi e la conseguente riduzione della quantità monetaria hanno frenato l’inflazione.
Fisher ci dice che il tasso di interesse nominale è uguale al tasso di interesse reale più l’inflazione attesa. Significa che più mi attendo un’inflazione alta, più i tassi di interesse devono aumentare. Per questo oggi c’è una riduzione della massa monetaria, a seguito di una politica restrittiva, cioè l’aumento dei tassi d’interesse. Questo causa una riduzione del livello di inflazione»

Oltre alla componente monetaria, ce n’é una reale?
«Sì, la minore globalizzazione porta a uno shock tra domanda e offerta. Ad esempio, la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina ha ridotto gli scambi internazionali, portando a un aumento dei prezzi. L’effetto è amplificato dalla tendenza a produrre più beni internamente, come i semiconduttori, che ora costano di più. Prima, diversi beni, soprattutto tecnologici, erano prodotti in Cina e venduti negli USA. Oggi Washington, Bruxelles e Pechino spingono per produrre internamente i beni strategici imponendo dazi, frenando così il libero scambio. In più, produrre oggi in casa quello che ieri si acquistava da fuori è più costoso».

C’è una tendenza di fondo in questi aumenti dei prezzi?
«Ultimamenteabbiamo assistito ad aumenti dei prezzi per l’effetto trascinamento, ma per il futuro ci si aspetta che il fenomeno si riduca. Il prezzo del petrolio rimane alto nonostante i recenti cali. Una quotazione del petrolio elevata nel tempo porta a un aumento costante dei costi, soprattutto per chi, come Europa e Stati Uniti, dipende molto dalla risorsa. Questo è un indicatore importante perché va valutato in quello che possono essere le aspettative sull’infl azione».

L’inflazione, oltre a far aumentare i costi dei beni e servizi, corrode anche la liquidità degli italiani. Quali strategie può adottare un risparmiatore per tutelarsi?
«Gli strumenti per aff rontare questa sfi da includono le obbligazioni correlate all’infl azione, ma non solo. Sarebbe opportuno includere nel proprio portafoglio anche un mix azionario composto da società solide fi nanziariamente. Imprese che generano un considerevole fl usso di cassa, hanno un basso livello di indebitamento e producono profi tti stabili nel tempo. Ideale sarebbe se fossero legate a settori in cui l’inflazione può essere trasferita ai prezzi di vendita. Altro aspetto da considerare è l’investimento immobiliare. Nel lungo termine, si è rivelato effi ciente, a patto che si tratti di case di qualità e ben posizionati».

Ha senso approcciarsi al mercato oggi per un giovane che vuole cominciare a investire?
«Questo è un momento positivo per iniziare a investire, perché con i tassi al 4% la situazione è diversa rispetto al 2021 quando erano a zero. Il rischio è inferiore».

Andando più nello specifico?
«Nel 2021, se un individuo avesse acquistato un titolo di Stato con una durata di 5 anni che offriva un rendimento dell’1%, avrebbe subito una perdita a causa dell’aumento dei tassi fi no al 4%. Questo perché è necessario considerare gli eff etti sulla lunga durata. Se il titolo fosse stato venduto immediatamente dopo un anno, la perdita in conto capitale sarebbe stata di circa il 10%. Oggi, questo rischio è molto più basso, dato l’attuale trend di crescita dei tassi. Infatti, un ulteriore aumento degli interessi e di conseguenza è più difficile subire perdite significative.
Un altro aspetto importante sono le cedole più ricche. Sono fuori da questi vantaggi i portafogli “ingessati”, composti da titoli con scadenze di 5, 10, 15 anni. Negli scorsi anni, i titoli a breve termine offrivano un rendimento nullo o negativo. Ma ora c’è chi si trova con titoli a lunga durata e con rendimenti dell’1 - 1,5%, quando il rendimento attuale è notevolmente superiore (4 – 4,5%). Ciò rappresenta un costo implicito che deve essere sostenuto».

Quali sono le prospettive economiche per i prossimi mesi?
«Per un certo periodo i tassi di interesse rimarranno abbastanza stabili, poi se le condizioni dell’infl azione si normalizzano, intorno a un 2/2,5%, allora saranno abbassati».

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